Da anni, sul clima, si susseguono Conferenze su Conferenze. Ma la Terra è sempre lì, con i suoi problemi. E lo Stato, entità avulsa all’idea di Terra, che non conosce confini diventa il principale artefice negativo dell’impasse. Finalmente gli Stati Uniti hanno un presidente consapevole dell’incombente collasso ambientale; ma Obama non è Cina, e la Cina lo blocca. Subito dopo l’India torna a farci sapere che non è per niente pronta a comportarsi bene. Figurarsi tutti gli altri Paesi a «sviluppo ritardato». Se l’India deve ancora crescere (prima di preoccuparsi di altre inezie come il destino dei monsoni), figurarsi loro. Perché non riusciamo a sfondare? È perché siamo impiombati, oltre che da vischiosissimi interessi costituiti, da un mare di pretesti senza capo né coda. Per dirne una, la tesi che i Paesi sottosviluppati devono essere risarciti per quel passato durante il quale gli «sviluppati» li hanno inquinati. Purtuttavia, forse, non è certo che i Paesi sviluppati si rendessero conto dei danni che stavano portando all’ambiente. Ed il punto è: ma se i paesi sviluppati fossero stati gli altri, si sarebbero comportati in maniera diversa? Alla stessa stregua, quando la società industriale fece proliferare le ciminiere alimentate a carbone, non si aveva la sensazione ne la percezione che il clima cambiasse. Nel 1968 Paul Ehrlich denunziava l’esplosione demografica (a ragione), ma nemmeno lui intuiva il problema ecologico. E lo stesso vale, a metà degli anni 70, per Aurelio Peccei e il Club di Roma, che concentrò la sua attenzione sulla limitazione delle risorse, non su un collasso ecologico che la scienza non aveva ancora captato, forse perchè non ancora manifesto.Dunque, nessuno può essere ritenuto responsabile di un evento non voluto e non previsto. Eppure assistiamo allo spettacolo di un Occidente che si sente «colpevole» e promette risarcimenti non dovuti pagati con soldi che, tra l’altro, non ha.

Ma passiamo al punto cruciale: la contabilità, come si conta che cosa. Oggi i Paesi che inquinano di più sono, nell’ordine, Cina, Stati Uniti, India. Ma Cina e India obiettano, a loro difesa, che chi sporca e spreca di più sono, pro capite, individuo per individuo, gli americani. Vero. Ma irrilevante. L’inquinamento è globale, aleggia su tutto il pianeta nel suo insieme.Pertanto quel che conta è il totale, soltanto il totale, delle emissioni inquinanti. La Cina (e l’India seguirà presto) fa più danno inquinante di tutti perché i cinesi sono un miliardo e trecento milioni. Che poi, singolarmente presi, siano più frugali degli americani, non sposta il problema di un millimetro. E il fatto resta che se negli ultimi 50 anni le emissionidi Co2 dei Paesi ricchi sono raddoppiate, quelle dell’India sono decuplicate. L’India e la Cina si sono impegnateformalmente a ridurre la loro «intensità carbonica», cioè la percentuale di emissioni tossiche in rapporto al prodotto interno lordo. L’India promette di tagliarla del 25% entro il 2020 rispetto ai livelli del 2005, mentre la Cina vuole fare anche di più, con una riduzione del 40%-45%, sempre sul 2005. Ma di fatto, le loro emissioni tossiche continueranno ad aumentare, ma lo faranno a ritmi molto più lenti: i due giganti asiatici rifiutano quindi i tagli drastici e i limiti vincolanti fatti propri dai Paesi più industrializzati, ma ora accettano il principio della corresponsabilità.

Ma il problema è e rimane di ordine economico. Dopo il vertice di Copenaghen del 2012 ci fu un impegno a versare circa 10 miliardi di dollari per riconvertire le economie dei paesi in via di sviluppo in economie verdi o a basso impatto di CO2, impegni mai rispettati. Nel 2015 al vertice di Parigi la cifra è addirittura raddoppiata a 100 miliardi in 5 anni. Ma chi paga ed a chi? Su questo le strade iniziano a diventare confuse come pure lo sarebbero le vie che prenderebbero i soldi donati a ciascun paese….E’ il vile denaro a bloccare ogni cambiamanto di strategia. E ciò accade non solo per il donare ma anche applicare a se stessi il principio

Prendiamo gli Stati Uniti: Obama di era impegano a ridurre del 17% le emissioni. Ma il Clean Power Act che concretamente dovrebbe realizzare tale riduzione è fermo al Senato USA dal 2009, Senato a maggioranza repubblicana. Se non si riesce a limitare i danni in casa propria come si può pretendere che ciò venga fatto in casa degli altri? E l’Europa? La questione è particolarmente sentita per via dei numerosi input ambientalisti. Forse per questo qui gli obiettivi di taglio delle emissioni sono più ambiziosi. Già 12 mila impianti industriali partecipano dal 2005 al sistema di scambio dei certificati di emissione, grazie al quale alcune industrie e alcuni Paesi hanno guadagnato denari insperati ma a causa del quale molti di più, in particolare quelli ad alto consumo di energia, hanno dovuto sostenere forti costi. Soprattuttoin Europa, cuore del sistema dell’emission trading in quanto aderente al Protocollo di Kyoto a differenza degli Stati Uniti e dei Paesi emergenti. Ora, i produttori di acciaio, di alluminio, di automobili, come pure le compagnie aeree (che per la prima volta saranno costrette a pagare per le loro emissioni), sono comprensibilmente attentissimi a quello che succederà nei prossimi anni. Quando le Confindustrie di Italia e Germania si sono incontrate nel 2009 , per esempio, i presidenti Emma Marcegaglia e Hans-Peter Keitel si sono trovati d’accordo nell’invitare i governi di Roma e di Berlino a non volere strafare. L’obiettivo dell’Unione europea — tagliare del 20%, rispetto ai livelli del 1990, le emissioni di gas serra entro il 2020—è già considerato ambizioso e costoso: arrivare al 30%, come hanno indicato i governi tedesco e britannico, sarebbe una penalizzazione difficile da sostenere, dicono. I ministri dell’Economia dell’Europa intera sono ora più omeno della stessa opinione. Come il governo italiano. Il problema, per l’industria del Vecchio Continente, è che i costi di un tale impegno la metterebbe in una posizione di svantaggio competitivo notevole rispetto a quelle americane, cinesi, indiane.  Per alcuni settori manifatturieri europei si tratterebbe di una penalizzazione straordinaria.Pochi, anche nell’industria europea, sono negazionisti: credono che qualcosa di serio su emissioni e clima vada fatto. Ma, impressionati dai costi, iniziano a dubitare che chi più forte suona la campanadell’allarme abbia ragione.